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Nomen omen, «il nome contiene il destino». Pinocchio è un pinolo: anima nascosta nel legno, potenzialità germinativa in attesa di sbocciare. Paradossalmente è nelle traduzioni che, secondo la formula di Walter Benjamin, cogliamo la «sopravvivenza dell’originale»: riconosciamo meglio, nell’eco lontana, la «vocina» nascosta dell’intraducibile ribòbolo toscano. La metamorfosi del burattino si riverbera così nella metamorfosi in una lingua diversa da quel toscano che di fatto "Pinocchio" “è”, irrimediabilmente. Fra tutte è straordinaria la raffinata, trascinante traduzione latina che Enrico Maffacini realizzò nel 1954 per Marzocco: l’unica in cui lo stesso nome-titolo cambia, diventando "Pinoculus". Nella lingua di Petronio, di Fedro, delle lettere di Cicerone, di Columella, dell’"Apocolocyntosis" senechiana, di Marziale, di Apicio, il burattino toscano sgambetta con energia formidabile, volteggia con un moto di danza della lingua che mette in scena "Josephetus" e il suo "pupulus", la "Sospita caesiocapilla" e "Lucinus", "Igniphagus", il "magister neurospastorum", e il "Chane", che è ancora il terribile "Pesce-cane" dell’originale, ma filtrato sapientemente attraverso il verbo greco χαίνω, “spalancare”. E dal latino, grammatica fondatrice, con percorso inatteso si trascorre al dialetto, lingua-madre che secondo Andrea Zanzotto è «l’inconscio della lingua», quella lingua poetica che «monta come il latte», e non sappiamo «da dove» viene. Dal piemontese «A-i era na vòlta… - Un rè – a diran sùbit i j mè cit letor» al genovese «Gh’ea ’na votta… - Un re – dian sûbito i lettoi ciù piccin» al napoletano «Ce steva na vota… Nu re!, penseranno ’e piccerille ca me stanno liggenno», il pinolo-Pinocchio è pronto a germinare ovunque, come un seme nascosto nel guscio di ogni lingua.
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