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Non c’è Pinocchio senza la sua immagine. Nonostante Collodi non intendesse affatto corredare la sua “Bambinata” con vignette o figure, sin dalla prima edizione in volume apparsa nel gennaio del 1883, le avventure del burattino-bambino si sono imposte nell’immaginario comune grazie alle sue illustrazioni: da quelle romantiche di Enrico Mazzanti a quelle più realistiche di Carlo Chiostri, fino alle mutevoli declinazioni comparse sulle molte traduzioni ed adattamenti pubblicati in tutto il mondo ancora ai giorni nostri; fantasmagorie di disegni e colori, ambientazioni fiabesche o oscure visioni cui non sono stati più sufficienti i confini della pagina. Pinocchio ha ben presto intrapreso strani e imprevisti sentieri, mutevoli e molteplici come la natura stessa del personaggio di Collodi. Dai fumetti ai cartoni animati, dal cinema al teatro, dall’architettura all’arte contemporanea: il Novecento visuale si è appropriato di Pinocchio alla ricerca della prima istanza sottesa all’elusività della creatura collodiana; metafora universale della condizione umana, il bambino-burattino è soglia e passaggio, maschera duplice sospesa tra verità e finzione, “quelque chose de vif et mort simultanément” secondo Giacometti e, ancora, per Bruno Munari, “macchina inutile (…) grazie a cui possiamo far rinascere la nostra fantasia quotidianamente afflitta dalle macchine utili”.
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